Viale Giotto Parco della Memoria phnicobarattaAncora per una volta i foggiani si preparano a ricordare alcuni loro concittadini. L’11 novembre di 16 anni fa Foggia subì uno dei più grandi shock del dopoguerra. Nel 1999 un palazzo si sbriciolò in pochi secondi sotterrando e uccidendo 67 persone. Bambini, donne, uomini, anziani, perirono atrocemente. Videro inermi e all’improvviso la morte in faccia, riconoscendola e subendola senza poter reagire. Un’atrocità che segnò la città di Foggia, che la inginocchiò innanzi a fatalità che potevano essere evitate. Tutti s’interrogarono sulle condizioni statiche di quel palazzo e poi degli edifici presenti in città.

67 foggiani, che con immenso amore ho chiamato fin dall’inizio “Gli Angeli di Viale Giotto”, subirono l’imperizia di alcuni nostri concittadini che costruendo e poi modificando lo stabile causarono l’implosione dello stesso. Furono portatori di morte.

Il ricordo in noi è ancora vivo. In me è ancora vivo, forse perché come altri persi persone care, un caro amico. Quel giorno sanguina nel mio cuore, lo stesso di tanti altri che fu dilaniato dal dolore. Un cuore fatto a brandelli, che tuttora mi soffoca al solo ricordo, rafforzato dal tetro spettacolo di tante bare marroni, l’una dietro l’altra, maculate da qualche di color bianco. Quel giorno la morte si sentì, si respirò, si vide.

A Foggia la ricorrenza è commemorata dalle istituzioni, dalla società civile, dai foggiani. Ma è anche ricordata nei dettagli di chi ha perso i suoi cari. Vi propongo una struggente testimonianza di una donna orfana per la tragedia, oggi mamma che vuol mantener acceso il ricordo, perché è giusto che sia così, una donna che aveva un fratello a me molto caro. Ciao Luigi.

«Lo ripropongo anche quest’anno, è l’unico modo che ho di ricordare sempre, a quest’ora ero in stazione.

[Giovanna Zezza Ronin]

Sento il bisogno di raccontarmi, e di ricordarmi quello che accadde 16 anni fa. Era tra il 9 e 10 novembre 1999, in piena notte, nella mia camera sentii un forte rumore come se un grosso vaso di terracotta si fosse rotto. Il 10 mattina completamente indaffarata perché dovevo partire mi scordai di riferire a mia madre dell’accaduto. Alle 15.15 presi il treno che mi avrebbe salvato la vita. Lo feci opo aver litigato con mia madre (una delle tante volte), poiché mi negava il permesso. Ma ora, così come allora (per fortuna) ho sempre fatto le mie scelte da sola contravvenendo anche ad ordini di qualunque tipo. Presi il treno. Durante il viaggio avevo una forte sensazione che mia madre sarebbe morta di li a poco. L’avevo già da qualche giorno, ma si rafforzò soprattutto in quel treno. Arrivai ad Ancona dove 11.11.99 avrei dovuto festeggiare il mio 4 anniversario di fidanzamento con il mio attuale marito (oggi sono 20 anni di vita insieme). Anche quella data fu scelta dal mio sesto senso. Quella fu una notte di incubi, cominciai a sognare persone che si gettavano dal mio palazzo. La mattina del 11.11.99 fui svegliata di soprassalto da mio marito, tornato indietro dal lavoro. Aveva già inteso cosa era successo. Le notizie erano frammentarie, non si capiva granché dai telegiornali. Ritornai a casa per scoprire che il palazzo dove avevo vissuto per 21 anni era praticamente inesistente. In obitorio aspettavo che portassero i corpi ormai senza vita dei miei cari. Ferma davanti alla chiesetta dell’ obitorio sentii la voce a distanza di mia madre che mi chiamava. Era appena giunta l’ennesima ambulanza con un corpo senza vita. Era mia madre. La riconobbi dal pigiama e le calze. Di lì a poco giunse al che il corpo di mio padre che per quanta polvere aveva indosso sembrava più vecchio di 20 anni; riconobbi anche lui. Pensavo che mio padre per quanto forte caratterialmente e fisicamente fosse sopravvissuto, o almeno lo speravo. Il giorno dopo mi ritrovai già donna, cresciuta improvvisamente in una notte. Avevo perso tutto: la casa, i genitori, un fratello meraviglioso, gli affetti, anche i ricordi mi erano stati negati. Mi aggrappavo a qualunque cosa trovassi in quel capannone, stralci di foto, indumenti, oggetti inutili che mi ricordassero il mio focolare. Questa tragedia fu solo l’inizio di un’altra. Una battaglia che durò qualche anno, con l’allora sindaco della mia città, che alla fine dovette eseguire (contro la sua volontà ed aspettative), per filo e per segno, un’ordinanza ministeriale da me suggerita, per il bene di tutti, ma concepita dal Presidente del Consiglio dell’epoca, a cui devo tutto, e soprattutto la mia salute mentale. Con ciò si realizzò la ricostruzione del palazzo gemello e il rimborso dello Stato finalizzato all’acquisto di altro immobile. Sono passati 16 anni, avrei voluto vedere i miei cari invecchiare, tenergli la mano, godere di un loro abbraccio, ascoltare i loro consigli. Anche questo mi è stato negato. Ma nessuno mai sarà in grado di togliermi il sorriso e la mia dignità, il mio brutto carattere, ma anche la mia dolcezza, figlia di tanto dolore e di serenità nella tragedia».

di Nico Baratta